IL PROGETTO INTERREG IIIA “ MORES”

La “Moritudine” mediterranea

Il progetto Interreg IIIa “Mores” si basa sull’attivazione di uno scambio artistico-culturale tra Corsica, Toscana e Sardegna attraverso la produzione di spettacoli teatrali che focalizzano l’attenzione su un’immagine-simbolo comune alle tre regioni implicate nel progetto: quella dei Mori.

Basta poco, infatti, per notare la coincidenza, che coincidenza non è, che vede in Toscana, a Livorno, la presenza del gruppo monumentale dei Quattro Mori dedicato a Ferdinando I de Medici, in Corsica quella di una testa di moro sulla bandiera regionale e in Sardegna quella di quattro teste, sempre di mori e sempre come emblema dell’isola, a rappresentare i quattro giudicati in cui essa era originariamente divisa.

Di qui l’idea di andare a scandagliare gli avvenimenti legati a quelle storie di corsari e pirati nel Mediterraneo alla base della comunanza simbolica che vede nei mori un elemento di contatto tra le tre regioni transfrontaliere; in questo modo sono proprio queste storie a costituire la materia per una triplice produzione artistica sospesa tra storia e finzione teatrale.

Collegati in partenariato intorno a queste tematiche tre associazioni culturali di Corsica, Sardegna e Toscana, ovvero delle regioni coinvolte nel Programma di Iniziativa Comunitaria Interreg IIIa. Si tratta dell’Association de soutien du centre culturel universitaire di Corte, dell’Associazione culturale Laborintus di Sassari e dell’Associazione di promozione social Acab di Livorno.

MORESCA

Moresca è un testo scritto “romanzando” le poche informazioni disponibili sulla fusione da parte di Pietro Tacca dei quattro mori in bronzo che completano ed abbelliscono la statua di Ferdinando I de’ Medici, posta in faccia alla darsena del porto di Livorno. Esso si fonda, infatti, su basi e ricerche storiche per poi aprirsi all’invenzione di un rapporto di reciproco rispetto e poi di familiarità tra Tacca e Morgiano, appellativo con il quale la tradizione popolare ci ha tramandato il nome di uno dei mori che lo scultore avrebbe conosciuto nel Bagno penale di Livorno.
In questo modo la storia reale (che attesta almeno due visite di Tacca al Bagno nel 1607 e nel 1615), si unisce alla storia immaginaria di un’amicizia che vuole forse costituire una sorta di esorcismo per i tragici avvenimenti dei nostri giorni, a seguito dei quali culture e religioni diverse si trovano a scontarsi in modo sempre più brutale e devastante. Ed è da questo che deriva l’ambientazione scenica dello spettacolo, costituita da una sorta di gabbia/ring dalle pareti mobili e semitrasparenti in cui, però, non sono Tacca e Morgiano che si vengono a scontrare, quanto Morgiano e Gagliardi: un altro prigioniero, questa volta bianco, attraverso le cui parole ci viene restituita l’immagine che dei mori era comunemente diffusa nel XVII secolo tra la popolazione cristiana dell’intero bacino del mediterraneo.
Le varie scene dello spettacolo sono alternate alla proiezione di brevi testi a scorrimento che danno informazioni di carattere storico, quasi sempre avulse dall’argomento trattato sul momento, ma che tornano utili allo spettatore successivamente o anche favoriscono la comprensione di passaggi teatrali già proposti. Oltre che a tal fine il testo è cadenzato da questi “cartelli informativi” per una vocazione didattica che si è voluto attribuirgli attraverso la proposta di informazioni altrimenti poco o per niente conosciute ai non addetti ai lavori.
D’altro canto, l’alternarsi di questi testi proiettati permette anche una sorta di rottura nella continuità drammatica. Ciò che ha l’effetto di favorire uno straniamento emotivo (quale anche la regia tende a sostenere), tale da permettere, già durante la visione dello spettacolo, l’attivazione di momenti di autonoma riflessione e giudizio da parte degli spettatori.

L’ “oscenità” dei Quattro schiavi
I pochi elementi reperibili sulla vita e la fisionomia umana dello scultore Pietro Tacca (Carrara 1577 – Firenze 1640), allievo prediletto del Giambologna e principale rappresentante toscano del gusto barocco, ci tratteggiano una figura di fervente religioso; ed è lecito pensare che da parte dello scultore vi fosse un’intima adesione alla morale ed ai principi cattolici che andava al di là di un mero ossequio formale.
Queste considerazioni hanno fatto da base d’appoggio per la tesi che, in modo progressivamente sempre più esplicito, viene affermata all’interno del testo teatrale: ovvero quella secondo cui all’ ”oscenità” attuale di questi quattro mori incatenati, faccia da contrappunto l’intima adesione dell’artista alla loro sofferenza umana. Insomma, il Tacca personaggio del nostro testo soffre per la necessità di dover rappresentare la schiavitù attraverso una delle sue opera, al punto di mettersi in discussione come cattolico di fronte all’atteggiamento della Chiesa su questo punto. Un atteggiamento troppo moderno il suo? Forse. Ma sicuramente adeguato all’esplicitarsi della parte conclusiva della nostra tesi: l’“oscenità” complessiva del gruppo monumentale dei Quattro Mori è bilanciata dall’adesione dell’artista alla sofferenza per schiavitù; ciò che si esprime in tutta la sua forza nell’atteggiamento fisico delle sue quattro statue. Così che, non a caso, a distanza di 400 anni ciò che colpisce l’osservatore è lo slittamento semantico dell’allegoria: non più affermazione di sottomissione come desiderato dal Granduca, ma disgusto per la schiavitù come esplicitato dal “nostro” Tacca. E che poi il vero Tacca la pensasse realmente così, poco importa: a noi piace credere che possa essere stato quantomeno possibile.

Mori bianchi
La ricerca portata avanti sulle fonti storiche relative alla realizzazione del gruppo monumentale dei Quattro Mori, ci ha portato ad imbatterci nei bozzetti originali in gesso conservati presso i Bottini dell’Olio di Livorno e non più visibili da quasi venti anni. Al di là delle dimensioni e dell’impatto materico e cromatico che li differenzia così tanto dagli originali in bronzo, ciò che risulta interessante dal nostro punto di vista è che due di questi hanno tratti occidentali, ovvero ritraggono indefiniti modelli di uomo bianco con evidenti influenze michelangiolesche.
Anche se i bozzetti erano spesso dei modelli generici su cui poi l’artista imprimeva fattezze specifiche in momenti successivi, la cosa ci è sembrata interessante e soprattutto utile ad uno degli obiettivi che ci siamo posti e che dovrebbe emergere dal testo. Ci riferiamo all’idea secondo cui “l’altro”è così difficile da accettare, quattro secoli fa come oggi, che risulta praticamente invisibile, al punto che l’artista Tacca, come gli viene fatto notare da Morgiano in uno dei tanti scambi di battute tra i due, “non vede” i tratti somatici dei mori nel momento in cui deve ritrarli. Insomma, abbiamo “sfruttato” questi due mori bianchi per comunicare l’idea secondo cui quanto più si è ignoranti sul “diverso-da-sé” (al punto di filtrare il suo essere profondo attraverso i nostri schemi mentali/culturali), tanto più esso risulta appiattito su una dimensione che lo priva di quegli attributi di umanità che gli sono specificamente propri: ciò che, da sempre, ha facilitato il giuoco dei “signori della guerra” nell’attizzare scontri di culture e di religione che costituiscono, sotto tutti i cieli, il travestissement di qualsiasi belligeranza per fini meramente economici.